Il punto sulla diffusione di Covid-19

A cura di Massimo Cesaretti e Alessandro Amadori

INTRODUZIONE

A dieci mesi dalla comparsa ufficiale del virus Cov-Sars-2, cerchiamo di fare il punto sulla diffusione della pandemia di Covid-19 (la malattia che esso provoca), provando a trarre anche qualche considerazione generale su come è meglio affrontare un’epidemia.

All’11 ottobre 2020, su circa 7 miliardi e 800 milioni di abitanti del pianeta, la malattia Covid-19 si può riassumere in queste quattro emblematiche cifre: circa 38 milioni di casi totali (contagiati), 1,1 milione di morti, 28 milioni circa di guariti, 8 milioni circa di casi attualmente positivi. Alla fine di settembre, la malattia era stata ufficialmente diagnosticata a poco più di 33 milioni e 400 mila individui, e aveva provocato alla stessa data circa un milione di vittime.

Svilupperemo la nostra analisi sui dati di fine settembre. Rapportando i casi accertati ufficialmente (a quella data) alla popolazione complessiva si ottiene un indice di prevalenza (diffusione della malattia) che si attesta allo 0,43% (media mondiale); e calcolando il tasso di letalità, cioè il numero di decessi diviso per il numero di casi accertati, si ottiene il valore medio di 2,99%. Insomma, la diffusione per un virus di tipo influenzale (quale è Cov-Sars-2) appare relativamente contenuta (meno di 5 casi ogni 1.000 abitanti), mentre la letalità è relativamente elevata (3 decessi ogni 100 contagiati). Questi sono i dati mondiali.

Tuttavia, come accade in tutti i fenomeni soggetti a variabilità statistica, i valori dei singoli Paesi rispetto a questi due semplici indicatori (prevalenza e letalità, ossia presenza o diffusione della malattia all’interno della popolazione, e decessi fra coloro che si ammalano) variano appunto molto da un minimo a un massimo, e mettendo su un grafico la posizione dei singoli Paesi rispetto alle due variabili che abbiamo indicato, possiamo svolgere delle interessanti osservazioni.

LA SITUAZIONE NEI VARI PAESI

Cominciamo dal nostro Paese, l’Italia. Sappiamo che, dopo la scoperta di Covid-19 a Wuhan in Cina a inizio dicembre 2019, l’Italia è stata una delle prime nazioni a dover fronteggiare alcuni importanti focolai, attivatisi soprattutto nel Nord del Paese tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo 2020; focolai che hanno repentinamente fatto crescere il contagio portando l’Italia a essere il secondo Paese con numeri importanti dopo la Cina. Il lock-down vissuto dall’Italia ha limitato la diffusione dei casi (oggi il nostro Paese si attesta a uno 0,52%, lievemente al di sopra della media mondiale), ma non ha limitato il tasso di letalità, che ancora oggi è il più elevato del pianeta: 11,53%. Probabilmente su questo drammatico risultato (quasi 4 volte più alto della media mondiale) hanno influito vari fattori: l’essere tra i primi a fronteggiare una malattia quasi sconosciuta; la struttura delle età della popolazione italiana, tra le più anziane del mondo (soprattutto nel Nord); anche la distribuzione territoriale, con una quota importante (>50%) della popolazione residente in centri medi e piccoli (<30.000 abitanti); una società molto centrata sulla famiglia, istituzione profondamente radicata sul territorio; la circolazione del virus poco controllata inizialmente nelle RSA.

Quali altre nazioni riscontrano una posizione prossima a quella dell’Italia? Sono tre e precisamente: il Regno Unito (prevalenza 0,65%, lievemente peggio dell’Italia – ma a causa di una ripresa dei contagi molto recente e molto superiore a quella italiana; letalità 9,57%); il Belgio (prevalenza 1%; letalità 8,68%); il Messico (prevalenza 0,66%; letalità 10,44%). Mentre per i primi due Paesi, vuoi per l’appartenenza al vecchio continente, vuoi per l’adozione di norme restrittive simili a quelle italiane, seppur con qualche tentennamento iniziale per UK, le spiegazioni possono essere abbastanza simili a quelle relative al nostro Paese, per il Messico invece occorre lanciare un segnale di preoccupante “warning”, perché la curva dei contagi è ancora molto elevata, il picco è stato toccato il 1° di agosto (rispettivamente 3 mesi e 3 mesi e mezzo più tardi dei picchi di Regno Unito e Belgio) e la diffusione fra la popolazione è destinata ancora a crescere nelle prossime settimane, in presenza oltretutto di un tasso di letalità decisamente allarmante (il secondo più alto del mondo).

Focalizziamo ora il nostro interesse sulla dimensione della diffusione percentuale sulla popolazione totale; i Paesi che hanno prevalenza superiore al 2% sono 5, di cui 4 con tassi di letalità sotto la media mondiale: Israele (2,74% di prevalenza, e una letalità dello 0,65%); Perù (prevalenza 2,49% e letalità pari al 4%); Cile (prevalenza 2,43% e letalità al 2,76%); Stati Uniti (prevalenza al 2,21% e letalità al 2,86%) e infine Brasile (prevalenza al 2,18% e letalità al 2,99%).

Analizziamo prima Israele; questo Paese ha avuto un vero e proprio boom di casi nel mese di settembre: si pensi che in soli 30 giorni ha sviluppato oltre il 50% dei casi complessivi finora registrati. Da qui la necessità per il Governo di studiare misure fortemente restrittive (lock-down). A conforto di questo dato preoccupante c’è però la constatazione che il tasso di letalità registrato in Israele è tra i più bassi del mondo (anche se i valori potrebbero peggiorare a breve proprio a causa della repentina crescita del contagio nello scorso mese di settembre).

Vediamo ora i due Paesi sudamericani demograficamente più piccoli: il Perù e il Cile. L’andamento della curva del Cile è relativamente meno preoccupante: come tutti i Paesi dell’emisfero australe caratterizzati dalle stagioni rovesciate rispetto alle nostre, il picco c’è stato a metà del mese di giugno (l’equivalente del nostro mese di dicembre) e ora che si va incontro alla primavera la curva del contagio sembra scendere a livelli più sostenibili; e a corredo c’è anche un tasso di letalità sotto la media mondiale che lascia ben sperare per la prossima stagione estiva.

Diversa la situazione in Perù, dove la curva del contagio ha toccato un primo massimo a inizio giugno, per poi risalire nuovamente a valori elevati a metà agosto (secondo massimo); la discesa a settembre c’è stata ma su valori ancora elevati (mediamente 5.000 casi al giorno); abbastanza preoccupante inoltre è il tasso di letalità pari al 4%, decisamente più alto della media mondiale, in una nazione che non eccelle per il proprio servizio sanitario.

E veniamo ai due giganti demografici USA e Brasile. Entrambi sono accomunati dalle scelte dei loro presidenti, di lasciare i Paesi scevri da azioni di blocco o di contenimento delle attività economiche e quindi di lasciare ampie libertà discrezionali ai singoli individui nella conduzione delle proprie vite quotidiane; scarso o nessun uso di mascherine, contatti sociali praticamente normali e distanziamento poco o per niente implementato; spostamenti territoriali anch’essi lasciati alla discrezione dei cittadini. Il risultato è un elevato valore di prevalenza sulla popolazione (ben oltre il 2%, cinque volte la media planetaria) e tassi di letalità simili (rispettivamente 2,86% e 2,99%), in linea però con la media mondiale. In termini di dinamica, la curva dei contagi è ancora molto alta sia in Brasile (circa 30.000 casi al giorno in media a settembre) che negli Stati Uniti (circa 40.000 casi al giorno in media a settembre), con un trend solo lievemente calante.

Osservata speciale in Europa (e nel mondo) è la Spagna. Fino a giugno la prevalenza di contagi non arrivava all’1% della popolazione; ma sono bastati gli allentamenti estivi e i comportamenti vacanzieri per far risalire in soli 3 mesi i contagi di un +0,64% come diffusione globale, portando così il Paese iberico a un valore di 1,60% (8° posto nella graduatoria mondiale). Fortunatamente il tasso di letalità non si è alzato ai livelli di marzo-aprile, e anzi aumentando considerevolmente il numero dei contagi (a denominatore), il rapporto è calato nel tempo al 4,2%. E’ comunque evidente che la Spagna sta realmente affrontando una seconda ondata della pandemia.

La Colombia ha un andamento dei casi positivi molto simile a quello del Perù, ma senza il picco del mese di giugno. La curva è cresciuta costantemente fino a metà agosto per poi iniziare una leggera discesa; ancora a fine settembre si registravano in media di 6.500 casi giornalieri e la prevalenza è cresciuta fino all’1,63% della popolazione; il tasso di letalità è fortunatamente allineato alla media mondiale (3,13%).

L’Argentina ha invece un trend dei contagi ancora crescente e con valori assoluti (una media di circa 10.000 contagiati al giorno a settembre) abbastanza preoccupanti per un Paese che ha una popolazione pari a tre quarti di quella italiana; ci si può però consolare osservando che il tasso di letalità è relativamente basso (2,23%) e sotto la media mondiale.

Il Sudafrica, è un paese australe e mostra l’andamento tipico di quelle nazioni, che hanno come detto le stagioni rovesciate rispetto ai paesi boreali; infatti il picco di contagi si è registrato in tutto il mese di luglio, per poi assistere a un progressivo ma costante declino dei casi, oggi attestati a meno di 1.000 giornalieri (i picchi avevano invece rasentato i 14.000 casi al giorno); la prevalenza nella popolazione è a oggi pari all’1,15% mentre il tasso di letalità si attesta al 2,47% (appena sotto la media globale).

La Russia è il quarto Paese al mondo per numero assoluto di contagi (1.180.000) e ha un andamento dell’epidemia piuttosto caratteristico: il picco dei casi si è avuto all’inizio di maggio (11.600 contagi giornalieri), ma poi la curva ha iniziato a scendere, senza però mai abbassarsi realmente e restando costantemente attorno ai 5.000 casi al giorno, fino a inizio settembre (quando è cominciata una nuova crescita che alla fine del mese di settembre non si era ancora esaurita, attestandosi a 8.500 casi al giorno). La prevalenza nella popolazione si colloca allo 0,83% (quasi il doppio della media mondiale). La fortuna di questo Paese è la bassa letalità, che vede l’indicatore attestarsi all’1,76% (ben al di sotto della media globale).

Analizziamo ora due Paesi dell’Estremo Oriente che possono essere ritenuti dei “best in class” in relazione a questa pandemia. Sono la Corea del Sud e il Giappone.

Il Giappone ha registrato una prima ondata di contagi culminata nei picchi del mese di aprile (cifre comunque molto basse, tra i 600 e i 700 casi giornalieri); le misure imposte dal governo hanno riportato i numeri dei contagi a valori decisamente molto contenuti (poche decine di casi) durante i mesi di maggio e giugno. A luglio c’è stata una seconda ondata, culminata con un picco di circa 2.000 contagi a inizio agosto. Poi la curva è tornata a decrescere, attestandosi su una media di circa 500 casi al giorno per quasi tutto il mese di settembre. La prevalenza della malattia a oggi nella popolazione per un Paese di quasi 130 milioni di abitanti è assolutamente ridotta (0,06%), e il tasso di letalità è pari all’1,89% (decisamente basso anch’esso). Oltre il 30% dei contagi registrati in Giappone (circa 83.000) è localizzato nell’area metropolitana di Tokyo (che, per la cronaca, conta più di 30 milioni di abitanti).

La Corea del Sud, un po’ per la vicinanza al primo focolaio cinese, un po’ per il timore di soffrire la pandemia più di altre nazioni a causa dell’elevata densità della popolazione (496 abitanti per Km2), ha reagito a livello governativo e sanitario velocemente ed efficacemente utilizzando anche la tecnologia d’avanguardia; basti pensare che il primo marzo il picco si era portato a poco più di 1.000 casi, valore drasticamente dimezzato già dopo 4 giorni e praticamente azzerato a inizio del mese di maggio. Anche i casi di recrudescenza del virus, registrati ad agosto, sono stati rapidamente circoscritti e ridotti a poche decine di casi durante il mese di settembre. La prevalenza sul totale della popolazione a oggi è pari allo 0,04%, e la letalità è dell’1,71%.

E la Cina, dove tutto è cominciato? Qui occorre fare delle precisazioni sulla correttezza delle cifre trasmesse e sulla loro veridicità (i primi dati ufficiali del contagio risalgono all’11 febbraio). Nel Paese, oltre a Wuhan (80% dei casi totali), ci sono stati altri focolai, ma per le restrizioni imposte il contenimento si potrebbe dire che è stato molto radicale ed efficace. Dalle cifre ufficiali la Cina ne esce come il Paese che, in relazione alla sua sterminata popolazione (1 miliardo e 400 milioni di abitanti), ha la prevalenza più bassa (0,006%), con un contagio limitato a poco più di 85.000 persone; poiché è stato il primo Paese coinvolto, esso ha però pagato un prezzo registrando un elevato tasso di letalità (5,45%).

L’India è infine l’altro gigante demografico planetario: 1 miliardo e 323 milioni di abitanti, con alta densità media di popolazione (423 abitanti per km2) e con standard di vita e sanitari ancora carenti secondo l’OMS, con una curva che sembra aver toccato il suo massimo a settembre con circa 100.000 casi giornalieri e che soltanto negli ultimi giorni di settembre sembrava avere iniziato un lieve calo. La prevalenza è ancora molto contenuta (pari allo 0,46%) e soprattutto la letalità è davvero bassa (1,57%, quasi la metà rispetto al dato medio mondiale). Si pensi però al rischio che corre questo Paese, dove un 1% di prevalenza di Covid-19 porterebbe immediatamente oltre 13 milioni di contagiati.

Un altro Paese europeo, che sta fronteggiando una seconda ondata come la Spagna, è la Francia, che comincia ad avere una prevalenza sulla popolazione ragguardevole (0,83%) e con un tasso di letalità decisamente alto (pari al 5,67%); analoga tendenza è in atto per l’Olanda, l’Austria, la Svizzera, la Danimarca, la Polonia, la Repubblica Ceca, la Romania, la Slovenia, la Slovacchia, l’Ungheria, la Grecia, il Portogallo e l’Ucraina.

Discorso a parte meritano la Germania, che si è distinta in Europa per avere uno dei più bassi valori di prevalenza (0,35%, al di sotto della media globale) e pure un basso tasso di letalità (3,30%, quasi in linea con quello mondiale), e la Svezia, che è stata fortemente criticata dalle altre nazioni scandinave per avere inizialmente adottato una politica di soft-lockdown (che ha avuto come conseguenza il fatto di registrare subito livelli di prevalenza sulla popolazione piuttosto elevati, ma soprattutto un alto tasso di letalità). Tuttavia i più bassi livelli di contagio registrati durante l’estate, e il fatto che a settembre non si sia presentata una seconda ondata, pongono oggi il Paese alla ribalta come esempio di politica virtuosa (per quanto da analizzare meglio). I dati ci dicono che la prevalenza è allo 0,92% della popolazione (in tutto 10 milioni di abitanti), comunque doppia rispetto alla media mondiale, con un tasso di letalità ancora elevato (6,37%).

 

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CONCLUSIONI

E’ ormai evidente che per combattere efficacemente Covid-19, in attesa che arrivi un vaccino, sono fondamentali il distanziamento sociale, la protezione delle vie respiratorie con supporti sanitari come le mascherine e l’igiene personale da contatto (lavaggio delle mani, soprattutto). Non bisogna frequentare luoghi chiusi affollati, e anche in luoghi aperti occorre prestare la massima attenzione per evitare contatti sociali che potrebbero favorire la diffusione del virus. D’altro canto non ci sono leggi capaci di “forzare” queste situazioni imponendole per il bene comune a scapito delle libertà individuali. Nessuno Stato (forse con l’eccezione della Cina) è in grado di esercitare un tale controllo di tipo verticistico (top-down). Perciò la sensibilizzazione degli individui resta l’unica via da percorrere (modello bottom-up).

L’Italia, a nostro parere, ha reagito in modo netto, chiedendo ai suoi cittadini dei notevoli sacrifici nei mesi di marzo e aprile, sul piano sia economico che personale; ma, come abbiamo visto, tolta la Cina, il nostro Paese è stato suo malgrado un “front runner”, e i numeri impietosi di inizio pandemia spaventavano molto. Immaginiamoci la combinazione del 2% di prevalenza con il drammatico 11,5% di tasso di letalità (che a inizio pandemia era anche più alto): questo avrebbe significato 1 milione e 200 mila contagiati per 138.000 decessi, senza calcolare il moltiplicatore ulteriore dovuto all’intasamento delle strutture sanitarie.

Paesi che per volontà dei propri governanti hanno scelto l’implementazione di norme molto più soft e di limitazioni meno impegnative, pagano oggi il prezzo di quelle scelte (USA e Brasile primi tra tutti). Paesi che hanno invece affrontato in modo preventivo, organizzato e rigoroso (per le limitazioni ai propri cittadini) il rischio della pandemia, hanno dimostrato al mondo che è possibile salvaguardare l’integrità della salute dei cittadini, con la popolazione che dal canto suo ha rispettato in modo assoluto le regole raccomandate dalle autorità (Giappone e Corea del Sud su tutti, ma anche Taiwan e Vietnam).

Paesi infine che hanno reagito in modo forte alla prima ondata, ma poi si sono lasciati andare e oggi pagano lo scotto di una seconda ondata, dimostrano che non è ancora possibile abbassare la guardia, perché il virus non fa sconti a nessuno; come ha detto il nostro presidente della Repubblica, l’amore per la libertà ce l’hanno anche gli italiani, ma esso ora va combinato con l’esigenza di assumere delle specifiche responsabilità individuali e collettive. In altre parole, va combinato con la serietà. Quando l’eccesso di libertà porta a cancellare tutti i sacrifici fatti, negando l’esistenza di Covid-19, ecco che viene a mancare la serietà. E le conseguenze di ciò finiscono per ricadere su tutti noi.

 

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